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Il_giovane_Siverì_-3

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Il giovane
Siverì 

 

Ieri mattina mi si è affacciata
un’idea che sarebbe stato bello se fosse balenata a me o ad altri quarant’anni
fa, quando zio Siverì era ancora tra noi. Ora zio Siverì non c’è più da tempo e
io,  oltre ad
essere rimasto il solo che si ricorda ancora qualcosa, sono pure molto avanti
negli anni. Però ci sono e non mi voglio far sfuggire quest’ultimo treno. 

Dunque Severino
Catani, detto da tutti Siverì, nato – credo – nel 1924 a Jesi e deceduto, se
ricordo bene, nel corso degli anni Novanta. La sua era un’antica famiglia di
mezzadri che aveva casa e campo a mezzo km da casa nostra, in collina.
Relazione privilegiata tra noi Rossetti e i Catani, perché i due fratelli
Rossetti avevano sposato due delle molte ragazze dei Catani. Infatti
mamma era una Catani, la più grande delle cinque figlie di Nonno Vincè e nonna Cristina, mentre la primogenita di Oreste e Santa,
Adria, aveva sposato zio Gino. La discendenza di Oreste e Santa: Adria 1920,
Severino 1924 e Domenico, detto Siro, 1928 circa. Aggiungo che i due fratelli, Vincè e Oreste, erano due uomini abituati a stare a testa
alta malgrado la modestia delle risorse e la durezza delle condizioni di vita:
assolutamente a testa alta.

Sarà per questo che quando il
giovane Siverì era sui diciassette anni, e a Jesi prese il via la fabbrica di
aerei Savoia Marchetti (situata a meno di due km da casa Catani), quando la
Savoia Marchetti assunse un migliaio di operai per produrre un solo tipo di
aerei, i trimotori noti anche come bombardieri, i Catani si fecero avanti e
ottennero che venisse assunto, unico in tutta la zona, proprio il giovane
Siverì, che in questo modo evitò, immagino, le insidie del servizio militare.

I circa due anni di lavoro in
fabbrica, con stipendiuccio, furono anni di formazione in cui Siverì non imparò
solamente a fare l’elettricista (cosa che imparò me bene), né soltanto un
minimo di cultura politico-sindacale. Accadde infatti una cosa grande. Chissà
come, scoprì il violino, cominciò a suonarlo, riuscì a comprarsene uno e a
prendere qualche lezione, e a casa Catani ebbe luogo una sorta di miracolo: lui
suonava delle canzoni e sua cugina Lisetta, di poco più giovane (una delle
sorelle di mamma), cantava. Il tutto in un ambiente in cui questo era pura
fantascienza (ricordo bene che dai Catani non c’era ancora l’elettricità –
infatti si usavano lampade all’acetilene – e tanto meno la radio). 

In compenso, questi Catani
minimamente intraprendenti avevano mandato zia Leda, un’altra sorella di mamma
e una bella ragazza florida, a prestare servizio nella vicina villa del Conte
Baldeschi Balleani come aiuto-bambinaia (il conte
aveva quattro o cinque figli, approssimativamente della mia età). Poi c’è stato
il passaggio del fronte, con distruzione della fabbrica e difficoltà per tutti,
ma zio Siverì conservò il volino, a casa Catani si continuava a cantare e anche
zio Siro prese confidenza con lo strumento.

A un certo punto zia Lisetta portò
a casa il fidanzato, zio Libero Severini, che subito si intese benissimo con
Siverì. Zio libero aveva preso il diploma di perito meccanico all’Istituto
Tecnico Industriale di Fermo e in guerra era entrato nell’aeronautica ottenendo
il brevetto di pilota. Dalla guerra tornò anche un vicino di casa, Pietro
dell’Angiolotto, che era stato prigioniero in Inghilterra e si era fatto delle
competenze come meccanico e motorista.

Per l’appunto nel campo degli
Angiolotti venne lasciato un piccolo carrarmato. Pietro smontò la calotta con
il cannone e soprattutto provò a rimetterlo in moto. Ci riuscì, e questa
circostanza accese la fantasia di Siverì che ne coltivò l’amicizia e provò a
chiedere al Conte (il proprietario di tutte quelle terre) un contributo per la
gestione del ‘cingolato’ da usare come trattore. Sarebbe stata una innovazione
per nulla costosa, ma tale da comportare una svolta per le due famiglie e, più
in generale, per tutti i mezzadri della zona. Il Conte, che era del tutto
impreparato, disse di no e in quell’occasione, come in molte altre, zio Siverì
venne più volte da noi Rossetti a commentare, ragionarne e lagnarsi. 

Intanto doveva essere arrivata la
corrente elettrica. Il ventunenne Siverì notò due telefoni in buono stato, uno
tedesco e uno americano, lasciati a casa nostra dalle forze di occupazione e,
ovviamente, ritenuti inutilizzabili. Da buon elettricista, e tutto proiettato come
era verso l’innovazione, Siverì provò a collegarli e farli funzionare. E ci
riuscì, per cui prese anche la decisione di installare un collegamento con fili
tra i Catani e i Rossetti, facendo attraversare la strada (bianca) che divideva
case e campi con un fossetto, accuratamente ricoperto, in cui far passare i
fili. E ci riuscì. Che belva, questo Siverì!

Gli imprevisti non mancarono, però.
La prima fu che, trascorrendo tutti gran parte del tempo all’aperto per il
lavoro dei campi, il telefono squillava ma non c’era chi stesse a sentire.
Allora a voce alta si gridava: “Telefono!”, come dire: “Qualcuno di voi vada a
rispondere”. Ma è ben presto scattata anche l’invidia dei vicini, che almeno
una volta ebbero l’infelice idea di andare a tagliare i fili in prossimità
della strada, dopodiché Siverì di notte andò a verificare e porvi rimedio,
sempre riparlandone con noi Rossetti.

Come se non bastasse, in quei
primissimi anni del dopoguerra zio Siverì si procurò e riuscì a far funzionare
anche una radio a galeno (così si diceva), un piccolo
congegno molto delicato, diffuso tra  i partigiani, che se ne servivano  per ascoltare Radio Londra etc. Di conseguenza
casa Catani divenne un laboratorio, un crogiuolo, un formidabile concentrato di
avanguardia.

Intanto l’amicizia con Pietro e
l’interesse per il cingolato cominciarono a produrre altri frutti. Siverì intraprese
un piccolo commercio di cavolfiori (produzione concentrata, grosso modo, a fine
anno) e coinvolse Pietro in questa che, col tempo, divenne la loro attività
principale. Ben presto finirono per dotarsi di un camioncino guidato da Pietro,
mentre lo zio, oltre a curare i rapporti con i coltivatori, cominciò a andare a
Milano sugli autotreni che portavano questi cavoli ai mercati generali, dandosi
da fare e facendosi delle idee sulla compravendita all’ingrosso, sui grossisti
etc. tanto da acquistare, poco a poco, la capacità di essere
lui stesso venditore a Milano, in società con Pietro.

Prima del 1950 lo zio introdusse anche
un’altra innovazione ‘inaudita’ in campagna: il vano doccia. Ma dove? In mezzo
al campo, a 50-100 m davanti alla loro casa, dove c’era una grande cisterna (dieci-quindici
metri di diametro?) concepita per far arrivare acqua corrente alla villa del
Conte (ora non c’è più). L’ingegnoso Severino fu in grado di ‘estrarre’ l’acqua
dalla grande cisterna e di ottenere l’effetto doccia, dopodiché allestì
un’apposita cabina, certo rudimentale. È l’ultima sua trovata di cui conservo
il ricordo.

Però, che personaggio!

Un’altra piccola storia che lo
riguarda concerne la chioma. Zio aveva una bellissima pettinatura e un bel
profilo, come si vedeva anche da qualche foto di un certo pregio. D’estate, gli
dava fastidio mostrare il collo (e il viso) molto abbronzato. Per prevenire un
eccesso di abbronzatura, quando stava nei campi aveva cura di coprirsi con un
fazzolettone, accettando di venire criticato per questo.

Intanto suo fratello, Siro, si era
appassionato al violino, aveva seguito dei corsi, aveva imparato il solfeggio
(quindi cominciava a essere un violinista esperto) e dimostrava di averci grazia.
“Tu dovresti andare al conservatorio!” Detto fatto: si presenta al
Conservatorio ‘Rossini’ di Pesaro, fa la prova di ammissione e viene ammesso,
solo che non c’erano nemmeno lontanamente le risorse per mantenersi a Pesaro.
Così ha continuato a esercitarsi e seguire corsi fuori dal conservatorio (a
Jesi), finendo, per decenni (per trenta-quarant’anni),
per essere il primo violino ai matrimoni di mezza città. 

Ricordo infine che Severino, ormai
diventato commerciante all’ingrosso in società con Pietro, si rese conto di
dover comprare un gran numero d contenitori (“cassette”) in legno e pensò bene
di favorire suo fratello Siro proponendogli di allestire una fabbrica di
cassette e impegnandosi a comprarle da lui. Forse lo aiutò anche
finanziariamente per l’acquisto delle attrezzature. Siro, a sua volta, si
impegnò a fondo e questa collaborazione durò per molti anni.

In conclusione, intorno al 1944-46
Severino espresse una creatività senza paragoni nell’ambiente, dopodiché
divenne poco a poco un commerciante piuttosto
facoltoso.

2 agosto
2025                                                                                                                       Livio